OS.it interroga associazioni docenti e genitori: sì alla carriera, alla valutazione e al nuovo stato giuridico dei docenti. No alle mance occasionali
di Eleonora Fortunato – La carriera degli insegnanti è una necessità strutturale, non un premio per chi fa più ore frontali. Sì alla valutazione dei docenti, ma senza dipendere dai risultati degli allievi e con commissioni strutturate a più livelli. Un alunno bravo è lo specchio di una scuola che funziona? Un docente che ha davanti a sé una carriera professionale, con diversi livelli di retribuzione, sarà di conseguenza stimolato a lavorare di più?
di Eleonora Fortunato – La carriera degli insegnanti è una necessità strutturale, non un premio per chi fa più ore frontali. Sì alla valutazione dei docenti, ma senza dipendere dai risultati degli allievi e con commissioni strutturate a più livelli. Un alunno bravo è lo specchio di una scuola che funziona? Un docente che ha davanti a sé una carriera professionale, con diversi livelli di retribuzione, sarà di conseguenza stimolato a lavorare di più?
Dopo i sindacati, ci hanno risposto le associazioni professionali dei docenti, senza dimenticare i genitori, che sempre più vogliono essere considerati parti attive di questo mondo e non semplici spettatori.
Carriera: premio o necessità strutturale?
I verdetti delle classifiche internazionali sono sempre più inclementi: la scuola italiana non prepara bene i suoi allievi e l’abbandono scolastico è a livelli allarmanti. Secondo gli ultimi dati presentati pochi giorni fa dalla Fondazione Agnelli, gli early school leavers (ossia i giovani fra i 18 e i 24 anni che hanno al massimo il diploma di scuola media e non partecipano ad attività di educazione/formazione) sono in Italia ancora quasi il 18% del totale dei coetanei (in Germania il 10,5%, in Francia l’11,6% e nel Regno Unito 13,5%).
Di conseguenza il Pil va sempre più giù, e sono ai minimi storici anche la considerazione e il prestigio dei docenti, che si portano da soli la croce del fallimento perché sono demotivati, non hanno prospettive, se sanno le cose non le sanno insegnare e bla bla bla.
“Solo una leadership professionale vera, riconosciuta, sarebbe in grado di rimotivare la categoria degli insegnanti oggi profondamente in crisi, appiattita su posizioni impiegatizie anziché di professionismo responsabile”, pensa così Paola Tonna, presidente Apef (Associazione professionale europea formazione), che queste cose le ha suggerite anche alle commissioni di Camera e Senato sotto forma di proposte per la XVII legislatura. “La carriera degli insegnanti – prosegue Tonna – è una necessità professionale di tipo strutturale, non un premio per chi genericamente si vuole impegnare di più”, e se la prende coi sindacati: “Con la loro matrice operaia e impiegatizia hanno creato nel nostro Paese un vero e proprio blocco conservatore”.
È proprio col loro consenso che, secondo il presidente Apef, sta per rientrare dalla finestra il famoso aumento delle ore di servizio: un ‘premio’ di produzione, diciamo così, mascherato da ‘carriera’ (d’altra parte è quello che ci aveva detto Di Menna, Uil Scuola).
Messa così, la questione infastidisce tutti: “Il sistema premiale è assolutamente da evitare – ha affermato Mario Rusconi, Vicepresidente Anp (Associazione nazionale dirigenti e alte professionalità della scuola) – una mancia occasionale che ostacolerebbe ancora una volta l’instaurarsi di una vera cultura del merito. Insomma, non è l’obolo che può far scattare nel docente il desiderio di migliorarsi e di progredire, sarebbe una visione meccanicistica”.
Né di carriera né tanto meno di premi vuol sentir parlare il Cidi (Centro di iniziativa democratica degli insegnanti), che per bocca del suo presidente Beppe Bagni ci invita a focalizzare l’attenzione sul dialogo interrotto ormai da tempo tra politica e scuola: “Fino ad oggi la politica ha cercato di intuire i bisogni della scuola e ha emanato norme estemporanee, come la reintroduzione del voto numerico. I docenti, invece, possono trasformare realmente le scuole in centri di ricerca, luoghi di ricerca-azione, ma non è l’idea di una carriera che potrebbe motivarli a fare questo. Anzi, una carriera in senso classico li porterebbe a stare sempre meno nelle aule. Ci vorrebbe una riorganizzazione globale del loro lavoro, con una formazione in ingresso e in itinere, con funzioni e responsabilità affidate dai docenti stessi”. La scuola, insomma, è convinto Bagni, non deve ‘premiare’ il singolo, ma far crescere tutti, insieme. Un’idea affascinante, la migliore nel migliore dei mondi possibili, ma quanto attuabile in ambienti di lavoro dove, come chi sa chiunque ne abbia pratica quotidiana, la conflittualità tra i colleghi è talvolta altissima e il concetto di lavoro di squadra un illustre sconosciuto? “Anche il conflitto – risponde Bagni – può essere un’occasione di crescita”. Dice bene, può.
Il mito del bravo insegnante solitario non piace nemmeno ad Alessandra Cenerini, presidente Adi (Associazione docenti italiani): “L’insegnamento è un lavoro di squadra, un’impresa collettiva, che spinge anche i mediocri a migliorare. Tutto questo richiede un’organizzazione tecnica adeguata, sostenuta da specifici professionisti, debitamente formati e selezionati”.
Valutazione degli insegnanti: quando e a chi spetta?
Ma non c’è carriera che si rispetti senza valutazione, fin qui sono tutti d’accordo. I problemi nascono se si cerca di capire chi debbano essere i valutatori, di quali condizioni debbano tenere conto (contesto reale in cui i docenti operano? Background socio-culturale degli allievi?), se davvero la valutazione debba riguardare tutti gli operatori della scuola, a partire dai dirigenti.
“Questo tema è irrinunciabile per l’associazionismo professionale – prosegue Mario Rusconi (Anp) – uno studioso come Piero Romei è giunto alla conclusione che i valutatori non possono essere i presidi, ma comitati strutturati su più livelli, composti dai dirigenti come dai docenti senior”.
Alessandra Cenerini (Adi) punto tutto sulla selezione: “I Paesi che ottengono i migliori risultati a livello internazionale operano selezioni rigorosissime degli insegnanti, ma ciò avviene già al momento dell’accesso alla formazione iniziale, alla quale vengono ammessi solo gli studenti migliori. Cosa si fa in Italia? Dopo una serie trentennale di stop and go, sono stati avviati un anno fa i TFA, percorsi abilitanti a numero programmato con selezione iniziale. Ma, prima ancora che gli ammessi si abilitassero, si è fatto l’ennesimo provvedimento di sanatoria, i PAS, ammettendo tutti, anche i pluribocciati, purché in possesso di 3 anni di servizio. L’ennesimo schiaffo al merito e un corale inno all’anzianità, in un paese con il corpo docente più vecchio del pianeta. Ora il governo – continua Cenerini – ha scritto nel DEF che intende avviare un sistema di valutazione delle prestazioni professionali collegato ad una progressione di carriera, svincolata dalla mera anzianità. Ma mi faccia il piacere!, direbbe Totò. Che vantaggio trarrebbero le scuole dalla premiazione di chi è già bravo e dall’inamovibilità degli inetti?”.
Le associazioni che abbiamo intervistato sono tutte molto caute sul coinvolgimento dei genitori nella valutazione degli insegnanti. Anche l’Anp rispetto alla nostra precedente intervista fa un passo indietro, delimitando il ruolo dei genitori, semmai, a quello di indicatori del ‘gradimento’.
Sono invece, come si intuisce facilmente, le associazioni dei genitori come Age (Associazione italiana genitori) e Moige (Movimento genitori italiani) a essere agguerrite su questo punto: “Siamo favorevoli ad ogni provvedimento che vada a garantire una migliore qualità della scuola – ci ha detto Antonio Affinita, Direttore generale del Moige – Da tempo proponiamo interventi che diano un riconoscimento alla bravura, alle capacità, all’impegno dei docenti e anche alla disponibilità. La qualità dell’insegnamento non può prescindere dalla formazione continua. Insegnanti di qualità, insegnanti capaci. Anche i genitori dovrebbero avere un ruolo attivo e importante sia per valutare l’approccio metodologico che la disponibilità nei confronti dei propri figli. Non a caso si parla di alleanza educativa tra famiglia e scuola”.
Per Gianni Nicolì, referente nazionale Age: “La scuola, come qualsiasi altro sistema, ha bisogno di una certificazione di qualità e la valutazione è l’unico strumento per attuarla. Questo controllo dovrebbe essere fatto da docenti, ma anche da una rappresentanza di genitori, e alle superiori di studenti. In Italia purtroppo c’è ancora una separazione troppo netta tra scuola e famiglia, il genitore è visto come un cliente, non come un componente, una parte della comunità scuola”.
Valutazione di sistema: come utilizzarla?
C’è un punto nell’ultimo decreto scuola che davvero ha sorpreso un po’ tutti, quando all’articolo 16 si legge che verranno stanziati fondi aggiuntivi per la formazione obbligatoria dei docenti i cui allievi abbiano conseguito risultati inferiori alla media nazionale nelle rilevazioni OCSE-Pisa. Un punto che sa davvero di estemporaneo e le cui ricadute evidenzia bene Rusconi, Anp: “Un simile determinismo porterebbe docenti e dirigenti a fuggire dalle scuole di periferia. La letteratura organizzativa anglo-sassone ha già dimostrato da anni che la carriera di un insegnante dipende dai risultati dei suoi allievi, ma da altri fattori come l’amore per la professione, la progettualità”.
Nessuno, però, se la sente di mettere in discussione l’opportunità e l’importanza di una valutazione degli apprendimenti esterna alla scuola: per Cenerini, Adi, “L’obiettivo è lo sviluppo di scuole dove l’insieme del corpo docente sia responsabile dei risultati di tutti gli alunni, con la costante analisi dei dati interni ed esterni. I dati non sono la soluzione dei problemi ma la base indispensabile per l’avvio di tempestive azioni di miglioramento. E ben vengano le rilevazioni dell’Invalsi che le scuole dovranno imparare a leggere e a utilizzare”.
I genitori sono, invece, preoccupati dall’ingerenza dei risultati Invalsi nel profitto degli studenti: “Age – ci ha detto Nicolì – ha fortemente contestato il fatto che test nati per valutare il sistema-scuola siano poi serviti per definire il profitto dello studente, cosa che è particolarmente grave agli esami di Stato conclusivi del primo ciclo di istruzione. La nostra associazione ha chiesto che nell’elaborazione delle stesse prove possa esserci un confronto con i genitori, e pare che in effetti ci sia apertura verso questo tema”.
Su questo punto Bagni, del Cidi, fa una chiosa: “Per valutare meglio il sistema-scuola non si dovrebbe partire dalle risposte che i ragazzi danno ai test, quanto piuttosto dal tipo di domande che vengono poste loro”.
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