Parodi: “Basta compiti”, docenti ne assegnano troppi, non servono e creano frustrazione
C’è una polemica che torna puntuale ogni anno quasi quanto quella sul festival di Sanremo: compiti a casa sì, compiti a casa no.
C’è una polemica che torna puntuale ogni anno quasi quanto quella sul festival di Sanremo: compiti a casa sì, compiti a casa no.
Di solito se ne parla più tardi, in prossimità delle vacanze estive, ma a giudicare dal boom di adesioni (ne mancano poche a 10mila) che ha avuto la campagna “Basta compiti!”, quest’anno i tg potrebbero dover variare la loro scaletta. Checché se ne possa pensare, l’ideatore della petizione non è né uno studente svogliato, né un genitore stanco di vedersi rovinare le serate da riassunti e problemi che i figli non hanno il tempo o la voglia di fare, ma un dirigente scolastico genovese, Maurizio Parodi, autore di articoli e saggi (tra cui un ebook dal titolo “I compiti fanno male”) che di sé scrive: “si occupa di formazione, ricerca, progettazione in ambito socio-pedagogico, non ancora rassegnato all’impermeabilità degli apparati educativi”.
Professor Parodi, la sua proposta di abolizione dei compiti a casa riguarda solo la scuola primaria o coinvolge anche gli altri ordini?
“La petizione: “Basta compiti!” riguarda la scuola cosiddetta “dell'obbligo”, ma la riflessione pedagogica sul senso di questa “pratica”, generalizzata eppure indiscussa, si può estendere a qualsiasi ordine e grado di scuola”.
Dire che i compiti a casa fanno male è un’affermazione molto forte, da quali studi scientifici è suffragata?
“Recenti rapporti OCSE hanno confermato che i nostri studenti sono i più oberati dai compiti, eppure si registrano tassi di analfabetismo funzionale tra i diplomati italiani a dir poco imbarazzanti; in più la nostra scuola eccelle per l'incapacità, scandalosa, di compensare le diseguaglianze di partenza. È evidente che se si delega al singolo studente il “compito” di darsi un metodo di studio gli esiti non possono che risultare desolanti: lo studente è lasciato solo nel momento in cui avrebbe maggior bisogno dell'insegnante. In tal modo si costringono i genitori (se e quando “ci sono”) a sostituire i docenti; senza averne le competenze professionali, nel compito più importante, quello di insegnare a imparare. Spesso devono sostituire anche i figli, facendo loro i compiti a casa perché quelli non ce la fanno, fisicamente e psicologicamente. Ciascun docente assegna, poi, i propri compiti come se fossero gli unici da svolgere (nemmeno si parlano tra loro). Per non dire del ricorso massiccio alla lezioni private, se ne hanno la possibilità economica (ulteriore discriminazione), perché i figli facciano ciò che evidentemente non sono in grado di fare – un "affare" da milioni di euro, ovviamente in nero”.
Nessun compito di nessun tipo? O almeno salviamo gli esercizi di matematica?
“Diceva il professore di italiano, storia e geografia di mio figlio (mai dati compiti a casa): “Se non vedo quali sono i problemi che gli studenti incontrano quando devono imparare come faccio ad aiutarli?”. E' a scuola che si deve imparare, è a scuola che si deve imparare a imparare. Va poi detto che le nozioni ingurgitate attraverso lo studio domestico per essere rigettate, a comando (interrogazioni, verifiche…), hanno durata brevissima; non “insegnano”, non lasciano il “segno”, si tratta di un sapere usa e getta. Lo può confermare qualsiasi genitore (per i docenti è più difficile ammetterlo): dopo pochi mesi restano solo labili tracce della faticosa applicazione; i ragazzi ricordano ben poco di quello che hanno dovuto memorizzare forzatamente. In questo modo, tra l'altro, si limita o impedisce lo svolgimento di fondamentali attività formative che la scuola non offre (musica, sport…) e che richiedono tempo, energie, impegno”.
Mi pare di capire che lei opterebbe per un modello di scuola in cui gli studenti si esercitassero esclusivamente in classe. Bisognerebbe affrontare allora il problema alla radice riorganizzando il tempo scuola e diminuendo forse anche il numero di materie (pensiamo alle medie inferiori)…
“Purtroppo abbiamo assistito alla “secondarizzazione” della scuola primaria (un tempo di qualità acclarata), con la proliferazione di docenti e discipline, fin dai primi anni di scuola. Ma il problema non è la quantità del tempo scuola, bensì la qualità della didattica. Lo conferma un dato sconcertante: in quasi tutte la scuole a tempo pieno, dopo 8 ore di immobilità e costrizione, si assegnano compiti a casa, quotidianamente e persino nei fine-settimana. Evidentemente si impone, sempre e comunque, il principio per cui “a scuola si insegna e si impara (a imparare) a casa”. Un accanimento davvero inquietante. Si danno persino i “compiti per le vacanze”: un ossimoro, un assurdo logico (e pedagogico), giacché le vacanze sono tali, o dovrebbero esserlo, proprio perché liberano dagli affanni feriali e invece si trasformano in un supplizio, creando stress, sofferenza, insofferenza”.
Secondo lei apprendere non significa anche confrontarsi con quanto si crede di aver appreso quando si resta da soli? Fare i compiti a casa non aiuta a gestire il tempo, a organizzarsi, a sopportare la frustrazione?
“La scuola costituisce una esperienza continua di frustrazione: l'immobilità fisica, la didattica verbosa, l'insensatezza delle procedure, la disciplina di stampo militare, la valutazione punitiva, l'assenza di qualsiasi forma di cooperazione o semplice interazione tra i pari… La nostra è una scuola dell'individualismo e dell'agonismo. Altro potrebbe essere, anche in termini di confronto con se stessi (limiti e risorse) se si qualificasse come “ambiente di apprendimento”, quello prefigurato dalle “Indicazioni nazionali…” – disattese, peggio, contraddette dalla didattica reale – che tra l'altro bandiscono la lezione frontale, assiduamente praticata anche con l'utilizzo delle nuove tecnologie: “Le trasmissioni standardizzate e normative delle conoscenze, che comunicano contenuti invarianti pensati per individui medi, non sono più adeguate. Al contrario, la scuola è chiamata a realizzare percorsi formativi sempre più rispondenti alle inclinazioni personali degli studenti, nella prospettiva di valorizzare gli aspetti peculiari della personalità di ognuno”.
Nella sua petizione scrive che i compiti a casa avvantaggerebbero chi è già avvantaggiato, cioè chi ha genitori premurosi e attenti al profitto scolastico. Chi non è così fortunato, che beneficio trarrebbe dal non avere neanche dai suoi insegnanti un’indicazione su come trascorrere le ore lontane dai banchi?
“E' così. I compiti sono dannosi perché procurano disagi, sofferenze soprattutto a bambini e ragazzi già in difficoltà, suscitando odio per la scuola e repulsione per la cultura, oltre alla certezza, per molti studenti “diversamente dotati”, della propria «naturale» inabilità allo studio; e sono discriminanti: avvantaggiano gli studenti avvantaggiati, quelli che hanno genitori premurosi e istruiti, penalizzano chi vive in ambienti deprivati, aggravando, anziché “compensare”, l'ingiustizia già sofferta, e costituiscono una delle ragioni, più gravi, dell'abbandono scolastico. Come diceva don Milani: “La scuola funziona come un ospedale al contrario: cura i sani e respinge i malati”. Comunque preoccupa la tendenza della scuola a colonizzare il tempo libero degli studenti (e delle loro famiglie): una degenerazione del “sistema” che rischia di diventare “totalizzante”, oltre che invasiva: una forma di ingerenza che nega ai genitori e agli studenti diritti fondamentali (un minimo di autodeterminazione vogliamo garantirlo?). Molta parte dei conflitti, dei litigi (le urla, i pianti, le punizioni…) che avvengono tra genitori e figli riguardano proprio lo svolgimento, meglio il tardivo o il mancato svolgimento dei compiti, quando sarebbe invece essenziale disporre di tempo libero da trascorrere insieme, serenamente. Dalla Carta internazionale dei diritti dell’infanzia, art 31: “Gli Stati membri riconoscono al fanciullo il diritto al riposo e al tempo libero, a dedicarsi al gioco e ad attività ricreative proprie della sua età…”.
Chissà cosa pensa di quegli insegnanti che fanno ancora imparare a memoria le poesie…
“Chissà quanti, tra gli scrittori più insigni e celebrati, avrebbero continuato la loro opera se ne avessero sospettato un uso prettamente scolastico; se avessero immaginato il tedio, gli affanni, le sofferenze che avrebbe procurato a milioni di individui lo «studio» dei loro testi, concepiti, invece, per deliziare, stupire, commuovere, indignare, scandalizzare (insomma tutto fuorché affliggere o annoiare); se avessero intuito i timori, le angosce, ma anche la rabbia e l’odio che interrogazioni e compiti a casa avrebbero indissolubilmente coniugato alla lettura dei loro versi più ispirati; se avessero previsto che i loro libri da strumenti di elevazione e arricchimento si sarebbero trasformati in strumenti di tortura e avvilimento. Chissà quanti avrebbero continuato a scrivere…”.
Parodi: “Basta compiti”, docenti ne assegnano troppi, non servono e creano frustrazione
Pubblicato da Orizzonte Scuola su Lunedì 8 febbraio 2016