DSA: l’origine sarebbe colpa del metodo di insegnamento nei primi anni di scuola
Alcuni studiosi americani pensano che i disturbi nella lettura e nella scrittura possano dipendere dal metodo con cui vengono insegnate nei primi anni di scuola. Ne è convinta anche Regina Biondetti, medico e membro del Comitato scientifico-culturale del movimento Pensare Oltre.
Alcuni studiosi americani pensano che i disturbi nella lettura e nella scrittura possano dipendere dal metodo con cui vengono insegnate nei primi anni di scuola. Ne è convinta anche Regina Biondetti, medico e membro del Comitato scientifico-culturale del movimento Pensare Oltre.
Dottoressa Biondetti, secondo lei può esserci una relazione causale tra l’insorgenza di DSA e alcune metodologie didattiche?
“DSA è un acronimo che sta per Disturbi specifici di apprendimento, la traduzione dei LD (Learning Disorders: dyslexia, dysgraphia, dyscalculia) degli Stati Uniti. Ora, non è mai stato dimostrato che questi disturbi esistano. È stato invece rilevato negli Stati Uniti che intorno al 1930 le scuole pubbliche hanno iniziato a insegnare a leggere utilizzando il metodo Whole Word (metodo della parola intera, che in inglese ha molti altri nomi come Look-and-say, Whole Language, Dolch Words e Sight Words) e quasi immediatamente i bambini hanno iniziato ad avere problemi di lettura.
Negli anni ’70 in Italia è avvenuta la stessa cosa, è stato abbandonato il classico metodo alfabetico (o fonetico) e si sono diffusi altri modi “innovativi” per insegnare a leggere. Con il metodo alfabetico l’unico modo di considerare le parole è per quello che esse sono, cioè l’unione di più lettere, ciascuna con un suono particolare e occorre imparare con precisione, attraverso il dovuto esercizio, ciascuna corrispondenza lettera/suono (codice alfabetico) per poter pronunciare le lettere, poi le sillabe, poi le parole e infine le frasi. L’apprendimento della lettura, e simultaneamente della scrittura, consiste solo in questo.
I nuovi metodi, introdotti in sostituzione del metodo alfabetico, sono gli equivalenti del metodo Whole Word degli Stati Uniti e in italiano hanno molti nomi e varianti, come metodo globale, visivo, ideo-visivo, naturale, misto etc., ma essenzialmente in tutti si tratta di cominciare a imparare a leggere con un approccio visivo e non fonetico alla lettura, considerando le parole tutte intere, insegnando a memorizzarle e riconoscerle come immagini visive”.
Quasi un metodo ideografico, quindi?
“Proprio così, un metodo ideografico che però evidentemente non può essere applicato per leggere una lingua alfabetica. Di conseguenza, anche in Italia da allora hanno cominciato a manifestarsi sempre più diffusamente nei bambini problemi di lettura. Non esiste praticamente più l’insegnamento a leggere con il metodo alfabetico, cioè solo attraverso l’alfabeto, appreso in modo rigoroso, ordinato e sistematico, ma l’alfabeto viene insegnato sempre associato al metodo visivo-globale, in ognuno dei vari metodi oggi in uso, con l’approccio visivo che precede quello fonetico.
In questo modo il bambino acquisisce un’abitudine a tentare il riconoscimento visivo globale di una parola intera, eventualmente a “indovinarla”, utilizzando indicazioni dal contesto o dalle figure, come suggeriscono questi metodi, ad andare “a senso”, anziché seguire la letteralità delle parole scritte, che gli rimane come una sorta di automatismo, un’impostazione sbagliata, difficilissima da togliere.
Ovvio che poi decada la precisione nella letteralità, nell’associazione grafema/fonema (con tutta una serie di confusioni fra grafemi e fonemi simili), che si manifesti la difficoltà a leggere parole nuove non memorizzate visivamente, la sostituzione di parole con altre di senso simile, la tendenza a indovinare, la lentezza nella lettura, la mancata progressione da sinistra a destra (obbligatoria nella lettura alfabetica di una parola ma non in quella visiva o ideografica), il deficit di automatismo alla lettura fonetica (che in realtà è un eccesso di automatismo alla lettura visiva): ebbene, tutti questi sono considerati sintomi di dislessia!
Proprio per questo essa è stata ribattezzata da alcuni studiosi americani dislessia educativa, cioè dislessia provocata dai metodi utilizzati per insegnare a leggere”.
La definizione stessa di DSA rimane al centro di un vivace dibattito: non è una disabilità, ma poi la si tutela come se lo fosse. Lei che cosa ne pensa? Rimetterebbe mano alla legge del 170/2010?
“Tutta la questione dei DSA è intrisa di contraddizioni, confusioni, imprecisioni, caricature e paradossi. Che cosa è il “disturbo di apprendimento”? È una malattia? No, viene affermato che non è una malattia. Ma allora perché i bambini vengono inviati alle strutture dell’Azienda sanitaria locale, dove si curano le malattie o i loro esiti, presso il settore di neuropsichiatria infantile, che si occupa specificamente di prevenzione, diagnosi, terapia e riabilitazione delle patologie neurologiche e psichiche dell’età evolutiva?
È una disabilità? No, ci viene detto che non è una disabilità e, a riprova di ciò, per i DSA non si applica la legge 104. Si applica la legge 170. Tuttavia quando quest’ultima si riferisce ai disturbi specifici di apprendimento come causa di “una limitazione importante per alcune attività della vita quotidiana” li definisce, in pratica, come una disabilità, dato che le limitazioni delle attività della vita quotidiana vengono rilevate dall’apposito indice ADL (Activities of Daily Living), utilizzato per misurare il grado di disabilità.
Inoltre, se non è una disabilità, perché negli USA si parla di Learning Disabilities?
È un disturbo, si sostiene, così come c’è anche il “disturbo dell’attenzione”, il “disturbo dell’iperattività”, il “disturbo della condotta”. Ma che tipo di disturbi sono questi, verrebbe da chiedersi. È un “bambino che disturba”, come si diceva un tempo (“Smettila di disturbare!”), dunque si tratta di qualcosa che attiene all’educazione, alla pedagogia, oppure è un “disturbo del bambino”, inteso come qualcosa che attiene alla medicina? No, pare non c’entri più niente la pedagogia, dunque riguarda la medicina. Ma allora si ricade nella malattia!
E questo “disturbo”, se riguarda la medicina, da cosa è provocato? È un’affezione del sistema nervoso centrale? Una malformazione? È una lesione neurologica? No, è un’alterazione neurobiologica, si dice. E che differenza c’è?
È un disagio. Certo, ma quante cose ci procurano disagio… eppure vengono affrontate in ben altro modo…
È un deficit, un difetto congenito? Una diversa abilità? No. È una neurodiversità… Ma la neurodiversità concerne ciascuno! E allora perché una neurodiversità dovrebbe essere tutelata in modo speciale se non comporta una disabilità?
Insomma, da qualunque parte la si giri, la cosa sfugge. E più si pretende di chiarirla, più la si confonde. Ma tutta questa vaghezza, indefinibilità e reiterata contraddizione va ascoltata. La verità non emerge solo da pacifiche asserzioni ma anche, e a volte forse di più, proprio dalle contraddizioni, dallo scontro con l’impossibile, dai contraccolpi, dalle caricature e dai paradossi.
Ecco allora la proliferazione, che sembra inarrestabile, dei casi di DSA. Solo ciò che non è sottoposto alla prova di realtà perché non è dell’ordine della funzione, ma della fantasia, può crescere a dismisura.
Ma, invece di intendere che questa proliferazione è già uno scacco e tornare sui propri passi, interviene allora la mediazione impossibile. Iniziano sottili distinzioni, elaborate riserve, precisazioni, eccezioni… Questi sì, sono veri DSA, ma quelli no, c’è un eccesso di diagnosi. I “veri DSA” e i “finti DSA”.
Ci sono i “disturbi di apprendimento”, che però sono altra cosa dalle “difficoltà di apprendimento”.
Sì, i DSA hanno diritto all’insegnante di sostegno… e poi, quando sono troppi: anzi no, non ne hanno diritto.
I portatori di questi disturbi devono assolutamente essere tutelati da opportune norme legislative, dunque la legge 104… però, a dire il vero, non si riesce a inserirli in nessuna delle fattispecie previste da questa legge e allora, tant’è, viene scritta un’apposita legge ex-novo, la 170.
È poi interessante chiedersi dove si collocano questi presunti disturbi, come nascono. I disturbi di apprendimento non sorgono improvvisamente dal nulla, ma sono parenti stretti di altri improbabili disturbi. Si osserva qui il fenomeno della disseminazione. Ciò che non incontra la prova di realtà può disseminarsi.
Inizialmente c’era il disturbo della disattenzione, poi è comparso il disturbo dell’iperattività, ma anche il disturbo oppositivo-provocatorio, successivamente il disturbo della condotta, dopo di che ha incominciato a diffondersi il disturbo della lettura (dislessia), in seguito è stato scoperto anche il disturbo della brutta scrittura (disgrafia), poi il disturbo degli errori di ortografia (disortografia) e infine il disturbo degli errori di matematica (discalculia)…!
A un convegno, una persona del pubblico, allibita, chiedeva: “Ma non c’è anche la dis-trigonometria o il dis-calcolo infinitesimale?”.
Che cosa risponde a chi, provocatoriamente, sostiene che DSA e BES sono riconducibili semplicemente alle differenze individuali?
“Riguardo ai termini DSA e BES, occorre osservare che, anche se l’insegnamento viene condotto nel modo migliore possibile, nell’apprendimento della lettura e della scrittura si incontrano comunque le difficoltà. Proprio come in qualsiasi altro percorso di formazione, che sia uno sport, una tecnica artigianale, la pratica di uno strumento musicale o la guida di un’automobile.
E, nel corso delle vicende della propria vita pure, ciascuno incontra un sacco di difficoltà. Chi potrebbe negarlo?
Ma le difficoltà che si incontrano sono le difficoltà del percorso, non del bambino.
La cosa più sbagliata da fare è assumere le difficoltà del percorso come se fossero proprie, soggettive. Così facendo, le difficoltà non vengono attraversate ma, al contrario, diventano dei limiti del soggetto, che si identifica in queste difficoltà, addirittura qualificandosi, denominandosi, attraverso di esse: soggetto DAP (Disturbo da Attacchi di Panico), bambino DOP (Disturbo oppositivo-provocatorio), bambino DC (Disturbo della condotta), bambino ADHD, bambino DSA, bambino BES… Soggetto mancante, deficitario, malato, bisognoso. E non se ne esce più.
Ci viene qui in aiuto l’umorismo imprevedibile dei bambini… Un bambino andava in giro dicendo che lui aveva l’“AIDS”, invece che l’“ADHD” (in effetti due sigle letteralmente simili), totalmente ignaro o incurante delle colossali differenze di senso e degli effetti provocati sugli astanti.
Anche il riso che ci dona generosamente la straordinaria ingenuità e ingegnosità dei bambini dovrebbe farci intendere qualcosa, aiutarci a dissolvere il florilegio delle sigle, per riportare le cose a ciò che realmente sono: difficoltà da attraversare. Leggere non è facile, non c’è “facoltà”, facilità di lettura, ma c’è la difficoltà della lettura e c’è la difficoltà dell’ortografia, dunque non c’è più il bambino dislessico, disortografico”.
Queste ‘etichette’ però preservano i bambini e i ragazzi dai giudizi negativi o dalle bocciature a cui inevitabilmente andrebbero incontro.
“Forse dalle bocciature della scuola, ma di certo non da quelle della vita. Anzi, in questo modo la scuola viene meno a una delle sue più importanti funzioni, oltre a quella di fornire conoscenze, che è quella, essenziale soprattutto in questi primi anni, di offrire una palestra in cui il bambino può esercitarsi a fare, provare e riprovare, sbagliare, correggersi, cercare un nuovo modo e ritentare… fino alla riuscita. Trovando così soddisfazione, sicurezza, fiducia in se stesso. E il modello per analoghe e più impegnative imprese future.
Una palestra dove può accorgersi che la caduta, lo sbaglio, la sanzione non sono un dramma ma, al contrario, ciò che induce il rilancio stesso. Si cade e ci si rialza. Quante volte l’ha fatto il bambino solo pochi anni prima quando imparava a camminare? E quanti innumerevoli tentativi mancati hanno preceduto la sua capacità di parlare? Perché adesso non dovrebbe essere più così?
Una palestra dove nessun bambino è escluso dall’opportunità di affrontare le difficoltà, dove non ci sono coperture materne, ripari, garanzie precostituite, giustificazioni aprioristiche, fughe… e proprio per questo ciascun bambino può sperimentarsi e riuscire. In un percorso autentico, e mai fittizio, attraverso voti, a volte belli, a volte brutti, a volte mediocri, ma sempre autentici, che danno la misura reale di ciò che è stato fatto e di ciò che occorre fare per migliorare. Va poi tenuto presente che i bambini a questa età distinguono benissimo il reale dall’immaginario, perché sono abituati a giocare, cosa che l’adulto normalmente non è più in grado di fare e finisce col credere alle proprie fantasie.
E allora non ci sono più ADHD, ma bambini da educare; non ci sono più DSA, ma le difficoltà di imparare; non più BES, ma prove della vita da superare.
Riguardo poi alle differenze individuali, dobbiamo considerare che in questo stadio dell’apprendimento non si effettuano ancora le differenze soggettive. Queste concernono il compimento e qui non c’è nessun compimento, siamo appena alle primissime fasi di una formazione.
Quelle che notiamo ora sono solo le variazioni del cammino, che evidentemente non può essere uguale per tutti, dato che i bambini non sono degli automi. Sono deviazioni, sbagli, sviste, errori, imprecisioni, inciampi, blocchi, arresti e riprese, che ciascuno incontra in qualsiasi percorso di formazione.
Un bimbo si inceppa di qua, un altro di là. Occorre rispiegare, correggere, far rifare. Finché quel passaggio non è superato. Senza mai diagnosticare disturbi di apprendimento, cosa che fa credere al bambino che quel passaggio a lui sia impossibile, che non potrà mai farlo.
Non ci sono disturbi di apprendimento da diagnosticare, ma neppure differenze da “rispettare”. Gli errori di ortografia vanno corretti e ricorretti. E garbatamente sanzionati: “Riscrivi tutta la pagina!”. Lo stesso per la brutta calligrafia. Il bambino in prima elementare può iniziare a scrivere facendo un grande scarabocchio ma, in poche settimane, quello scarabocchio sarà trasformato dalle piccole dita in una bella scrittura leggibile. Però ci vuole esercizio. Gli va insegnato.
E occorre anche saper aspettare. Alcuni bambini richiedono più tempo. I bambini crescono “a scatti”, quindi anche solo aspettare qualche settimana, può contribuire a sbloccare una situazione e ripartire. Ma poi, che fretta c’è? I piccoli di sei anni hanno davanti a loro tutto il tempo del mondo.
Correggere, far rifare, dividere il percorso in piccoli passi, e tutti i bambini riusciranno, proprio perché non si tratta di abilità complesse di ordine superiore, ma di quelle iniziali e più elementari.
Non tutti i bambini diventeranno calciatori, ma tutti hanno imparato a correre e saltare, non tutti diventeranno conferenzieri, ma tutti hanno imparato a parlare, e così non tutti diventeranno giornalisti ma tutti impareranno a scrivere, non tutti diverranno programmatori informatici, ma tutti sapranno fare le operazioni aritmetiche. Come è sempre stato. È ampiamente dimostrato che tutti i bambini, ma proprio tutti, imparano a leggere e scrivere bene, quando questo è insegnato appropriatamente.
Con gli strumenti che l’istruzione elementare fornisce loro, tutti i bambini saranno attrezzati per compiere i passi successivi, e allora sì che, un po’ alla volta, la differenza si specificherà nell’approdo di ciascuno come scrittore, violinista, calciatore … La bella differenza!”.