Abolire la scuola media? Due opinioni a confronto
Chiedo scusa ai lettori se questa sarà una recensione-confessione, ma il libello Abolire la scuola media? (il Mulino 2015) affronta questioni così cruciali per un insegnante (e anche per un giornalista) che è difficile governare le emozioni e limitarsi a fornirne un resoconto e basta.
Due autorevoli intellettuali si confrontano sulla trasformazione del sistema educativo italiano e rispondono alla domanda se la scuola media ne rappresenti o no l’anello debole. Le posizioni non potrebbero essere più divergenti: per Cesare Cornoldi, docente di Psicologia generale all’Università di Padova, la scuola media così com’è non va assolutamente bene e andrebbe ‘elementarizzata’ nell’ottica di un suo assorbimento nella scuola primaria. Giorgio Israel, che è stato storico della scienza e docente di Storia della matematica alla Sapienza – Università di Roma, difende invece con vigore il ruolo della scuola di mezzo e paventa in maniera molto energica lo stravolgimento in chiave ‘olistica’ delle discipline.
Andiamo con ordine: a Cornoldi, che firma le prime 65 pagine del libro, pare del tutto insensato un ciclo di tre anni che scimmiotti il liceo e che nel contempo privi improvvisamente gli studenti dell’approccio coinvolgente sperimentato nei primi cinque anni, tutto cooperative learning, problem solving e interdisciplinarietà. Le statistiche sembrerebbero dalla sua parte: è nel lasso temporale tra gli 11 e i 14 anni che i ragazzi iniziano a manifestare disaffezione allo studio e frustrazione, crollano le loro performance nelle misurazioni internazionali, si prepara la voragine dell’abbandono, che inghiottirà quasi il 20 per cento di loro al primo biennio delle superiori.
Cornoldi riserva parole particolarmente dure agli insegnanti di scuola media, privi di un’adeguata preparazione psico-pedagogica: “Là dove una preparazione per l’insegnamento c’è, la focalizzazione è sulla disciplina piuttosto che sull’alunno che apprende […]. L’insegnante di scuola media ha scarsa preparazione psico-pedagogica perché è formato in un corso di studi disciplinare per essere esperto della disciplina e in questo senso ha una preparazione simile a quella prevista per i docenti delle superiori e dell’università, con l’aggiunta della frustrazione rappresentata dal fatto di trasmettere il suo sapere non tanto a una popolazione eletta di liceali o universitari che in qualche modo hanno scelto la sua disciplina, ma a studenti che ritiene a priori ignoranti o disinteressati” (pagg. 27-28). Il corollario è che un’impostazione disciplinare precluda o, perlomeno renda difficile, nei ragazzi una certa apertura mentale e li ostacoli in un lavoro di tipo interdisciplinare; allo stesso tempo ci si dovrebbe adoperare per far attecchire le conoscenze dei fondamenti “prima di volare con temi avanzati e innovazioni didattiche affascinanti” (pag. 48).
Concordo sul fatto che la sfida più difficile che la scuola possa porsi è ridurre il più possibile la frammentazione del sapere, combattere contro una conoscenza rapsodica e nozionistica incapace di appurare il reale coinvolgimento degli studenti, ma questo si dovrebbe realizzare garantendo insegnanti capaci di trasmettere conoscenze approfondite e non abolendo le discipline! Probabilmente è vero che saper distinguere un iperbato da un’anastrofe non è importante a tredici anni come lo è a diciotto (anzi, forse a tredici anni può essere nocivo se a questo esercizio così tecnico e specialistico viene attribuita più importanza che all’analisi grammaticale o logica), eppure ogni attività dell’insegnante, se condotta con competenza scientifica, contribuirà a trasmettere agli studenti, insieme alle conoscenze, un autentico modello etico di passione e rigore intellettuali.
Pienamente condivisibile nelle pagine di Cornoldi è, invece, il suggerimento di ridimensionare i programmi e il numero delle discipline nella scuola media, avendo finalmente il coraggio di proporne alcune in via opzionale e non obbligatoria; sacrosanta, infine, l’osservazione che, tanto negli insegnanti quanto nei dirigenti, andrebbe mantenuto e rafforzato negli anni il contatto con la ricerca scientifica e con l’università, oltre la fine degli anni della laurea: non, quindi, un obbligo burocratico di formazione controllato da MIUR o agenzie di funzionari e propinato da non si sa quali formatori di professione (ne propongo un esempio tra un momento), bensì esercizio responsabile (e in questo senso “obbligatorio”) della libertà di insegnamento grazie al contatto con le arti e le scienze, attraverso le pubblicazioni e i convegni scientifici e le aule delle istituzioni di ricerca scientifica.
Veniamo alla seconda parte di questo libro, che sintetizza in 35 pagine in maniera abbastanza agile la magistrale riflessione condotta da Israel sulla difesa del modello universalistico della conoscenza e sulla funzione della scuola media, con la quale chi scrive ha maturato una consonanza pressoché totale. In sostanza, per Israel la scuola media è un anello indispensabile (anche se certamente perfettibile) per la preparazione allo studio liceale e universitario perché finalmente “svela” agli studenti la conoscenza della realtà (e di se stesso) organizzata per discipline, un patrimonio che l’uomo ha conquistato, selezionato e strutturato nel corso del suo cammino millenario.
È vero, gli studenti delle medie mostrano un’affezione allo studio e all’istituzione scolastica minore rispetto ai bambini della scuola primaria, ma questo Israel lo imputa allo stravolgimento dell’impostazione del ciclo precedente che si è consumato in Italia negli ultimi venti o trent’anni: perché costringere i bambini di sei o sette anni a stare mesi e mesi sui numeri da 1 a 10 quando anche a due o tre anni dimostrano già una certa disinvoltura con le decine e persino con le centinaia? Per non parlare della storia, che smette di essere racconto del passato per ridursi a ‘scienza della temporalità’. In sostanza, in prima media arrivano oggi ragazzi meno preparati rispetto al passato, meno pronti ad affrontare il ‘salto’ che li metterà di fronte a tante materie ognuna con la propria epistemologia, il proprio lessico specifico, il proprio docente.
L’ossequio acritico a certe teorie pedagogiche (spesso superate quando non addirittura confutate) o alla neurobiologia hanno indebolito, sostiene Israel, quella che un tempo si diceva la scuola migliore del mondo, per l’adesione a un modello scientista che patrocina con sempre più insistenza l’ideologia secondo cui “le materie debbono sparire, sostituite da una sorta di blocco di attività prevalentemente pratiche in cui la memoria dell’antica suddivisione per discipline permane soltanto come un insieme di immagini che compare quando si ruota un blocco, come sulle facce di un prisma” (p. 75). La scuola, insomma, dei learning object, della risoluzione dei problemi senza avere una conoscenza sistematica degli strumenti e dei concetti necessari (in paesi come la Finlandia si fa sempre più largo l’idea che a scuola si vada per porsi problemi e tentare di risolverli, l’acquisizione di conoscenze è qualcosa di secondario, p. 80).
Poi il problema diventa filosofico e anche politico, e ogni insegnante dovrebbe porselo in questi termini esatti: “La struttura disciplinare, nel corso di tutta la storia dell’umanità, è stata il riflesso del rapporto dell’uomo con la realtà. Essa ha assunto forme mutevoli ma non esiste un solo periodo in cui non sia stata lo scheletro portante della cultura e dell’apprendimento […]. Esiste e continua a esistere da millenni un’astronomia perché fa riferimento a una sfera della realtà che ha una sua specificità anche se il modo in cui gli antichi vedevano il cosmo era radicalmente diverso da quello con cui l’hanno visto gli scienziati dell’epoca di Galileo o di Newton e ancor più lontano da quello con cui lo vedono gli astronomi contemporanei […]. Lo studio rigoroso di questi differenti strati della realtà ha prodotto nel corso dei secoli un’accumulazione di conoscenze che è il fondamento stesso del successo della scienza e della tecnologia. […] (pp. 84-85).
Il culmine di questa appassionata apologia della conoscenza e della trasmissione del sapere arriva a p. 87, quando Israel identifica nella confusione tra informazione e conoscenza la radice del disastro che sta travolgendo la scuola italiana: i concetti non nascono dall’interazione informativa; cultura e conoscenza dotate di fondamento hanno bisogno di menti allenate al metodo e al rigore, certamente non a proprio agio nella caotica anarchia della rete.
Ha sempre provocato in me un disagio molto molto forte sentire, nei corsi di aggiornamento organizzati dalle scuole in cui ho insegnato, che le conoscenze debbano prodursi dal basso – spesso viene scomodato persino Montaigne con la famosa testa ben fatta – e ci è voluto tempo perché elaborassi da cosa nascesse quello stato d’animo. Ecco, quando si dicono simili idiozie, si ha idea dell’alibi a non sapere o a sapere in maniera grossolana che potrebbe crearsi nei docenti e anche in chi si occupa della loro formazione e selezione? L’aberrazione più eclatante – ma quella volta il formatore ha davvero rischiato il linciaggio dei colleghi, a quanto pare ancora più sdegnati di me – l’ho sentita una volta da un Apple educator, il quale asseriva l’inutilità dell’insegnamento della biologia nelle scuole perché è talmente veloce, ormai, il processo di acquisizione di nuove conoscenze e di condivisione delle informazioni relative alle stesse che ogni docente rischia di dire cose obsolete in classe, che in più qualsiasi genitore frequentatore di non so quale rivista scientifica online potrebbe facilmente smascherare. Un ragionamento simile implicherebbe la sottrazione del monopolio dell’accesso al sapere alla scuola, ma, nota giustamente Israel, “L’accessibilità massima all’informazione – che è un effetto positivo delle tecnologie informatiche – non implica affatto il possesso della conoscenza” (p. 88)!
Tutti noi che abbiamo a che fare nel nostro lavoro con informazione e conoscenza tocchiamo con mano quanto sia difficile lavorare con la propria testa in maniera originale, perché la tentazione di internet ci espone al ‘copia e incolla’ più di quanto ognuno riesca a confessare a se stesso. Far nascere concetti e collegarli in ragionamenti efficaci, collaudati dall’esperienza del reale, è difficile, costa sacrificio. Ora, se anche la scuola abdica a questo ruolo delicatissimo di palestra del pensiero, a quale futuro andremo incontro? Clima di fiducia, autostima, centralità dello studente: ecco tanti slogan privi di significato se rappresentati come il fine dell’azione educativa, mentre le idee esposte da Giorgio Israel richiamano l’onestà intellettuale, la fatica, l’impegno, il rigore per il consolidamento della democrazia di gramsciana memoria. Con questa posizione non possiamo che sentirci, lo ripeto anche alla fine, completamente e profondamente affini.